Viviamo in un’epoca definita dalla mobilità globale e dall’intreccio di culture, in cui la parola “inclusione” risuona nelle politiche sociali, nei media e nei discorsi accademici con una frequenza sempre maggiore.
Questo termine viene spesso presentato come una soluzione miracolosa. Come un ponte ideale per abbattere le barriere tra individui e gruppi con storie, valori e vissuti diversi.
Ma cosa significa davvero inclusione?
Mi è capitato di fare parecchie riflessioni intorno a questa parola. Mi sono anche soffermata sul senso profondo del significato dell’interculturalismo a lungo termine, ma anche a breve termine, per quello che riguarda e che ha riguardato le generazioni anello, quelle per prime a cavallo di due culture.
A me non piace molto la parola “inclusione”. Trovo che, nonostante le sue buone intenzioni, possa spesso risultare vuota o addirittura problematica. Soprattutto quando si parla di sottoculture emergenti nel contesto della migrazione.
Inclusione, spesso, è un termine usato in modo superficiale. Quasi fosse uno slogan, ma la realtà che si nasconde dietro questa parola è ben più complessa.
Includere significa implicitamente che ci sia stata un’esclusione, un’interruzione nella continuità culturale che ora si cerca di riparare, come spiega bene Vera Gheno.
Ma come possiamo parlare di vera inclusione se non affrontiamo le cause profonde di questa frattura? Credo si debba soprattutto guardare alle disuguaglianze strutturali. Piuttosto che limitarsi a offrire spazi “sicuri”, ma che non scalfiscono il problema alla radice.
Mi capita spesso di leggere della prima migrazione in Australia. Ho anche la fortuna di poter parlare direttamente con alcune delle donne che ne hanno fatto parte. Arrivate qui in un’epoca ben diversa da quella che vivo io, con molti meno mezzi. Eppure con qualcosa di profondamente assonante a me. Le loro storie parlano di sacrifici, ma anche di forza e resilienza.
In un contesto che le vedeva come “altre”, le estranee, hanno trovato il modo per preservare le proprie tradizioni. Così come trasmettere i loro valori ai propri figli e nipoti.
La migrazione non è solo un movimento fisico da un luogo a un altro. È un processo di trasformazione interiore. Che richiede un costante negoziare identità e appartenenze.
Chi migra (o espatria), porta con sé non solo le valigie, ma interi universi culturali, speranze e aspirazioni. Elementi che si scontrano con una realtà spesso meno accogliente di quella immaginata.
La storia delle migrazioni mi fa riflettere sulla complessità dell’essere accolti e dell’accogliere, e su come l’inclusione vada oltre la semplice tolleranza o la mera accettazione superficiale.
Inclusione dovrebbe significare riconoscere il valore intrinseco delle differenze culturali. Non tentare di cancellarle o di assimilarle a un modello dominante.
Dare spazio e dignità a ogni cultura, favorendo un dialogo autentico e reciproco, piuttosto che imporre una sola visione del mondo.
Questo è possibile nell’epoca in cui viviamo oggi? È possibile nel contesto delle migrazioni globali? Cosa è destinato a perdersi e cosa è destinato a nascere?
Guardando al passato australiano, la migrazione italiana post-bellica è stata un fenomeno che ha messo in luce dinamiche di genere specifiche. Le donne italiane si sono trovate a dover negoziare la loro identità in una società che le vedeva come portatrici di una cultura allo stesso tempo esotica e inferiore.
Il loro modo di parlare, di cucinare, di educare i figli e di vedere il mondo è diventato oggetto di curiosità, ma anche di stereotipi. La lingua italiana, con le sue inflessioni regionali portate nelle strade di Melbourne, Sydney o Perth, ha rappresentato un ponte ma anche una barriera. Un segno di identità ma anche di estraneità.
Anche la lingua, quindi, è un elemento potente. Mentre costruisce ponti, può potenzialmente anche erigere muri. Accentuando le differenze piuttosto che promuovere la comprensione reciproca. Ogni accento, ogni dialetto, porta con sé una storia, una geografia, una visione del mondo che merita di essere ascoltata e compresa.
Le politiche di inclusione attuate in diversi contesti del mondo hanno spesso l’obiettivo di ‘appianare’ queste differenze, promuovendo un modello di integrazione che però rischia di cancellare la ricchezza delle sottoculture piuttosto che valorizzarle.
Ma come si può veramente parlare di inclusione se il primo passo è l’omogeneizzazione?
Nel contesto di un mondo sempre più globalizzato, certi modi di vivere e culture tendono a diventare dominanti a causa di forze economiche, geopolitiche e mediatiche che privilegiano alcune narrative a discapito di altre.
Questo dominio culturale rende ancora più urgente la necessità di un approccio all’inclusione che non sia solo superficiale, ma che interroghi in modo ampio e profondo.
È fondamentale che ci sia una presa di coscienza rispetto ai rischi della globalizzazione culturale, che spesso impone modelli standardizzati e impoverisce la diversità culturale.
Oggi, quando parliamo di inclusione nel contesto delle sottoculture, dobbiamo essere critici e consapevoli di ciò che questo termine implica. Non basta aprire le porte. È necessario fare spazio alle voci marginali. Riconoscerne il valore e permettere loro di contribuire attivamente al dibattito collettivo.
Le sottoculture di oggi, che si tratti di comunità di migranti, gruppi etnici minoritari, comunità LGBTQ+ o altri collettivi marginalizzati, portano con sé questioni complesse di identità, espressione e diritti. La loro “inclusione” spesso richiede un dialogo continuo, una negoziazione costante di spazi, lingue e significati.
Credo che continuare a interrogarsi anche sul linguaggio sia uno dei modi per provare a costruire una società in cui ogni individuo possa sentirsi parte di un insieme più grande, senza rinunciare alla propria unicità.
Manuela, Sydney